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APPENDICE (DAL DIARIO DEI RITORNI)

L’antefatto, la forza del caso. 

Piemonte d’Istria, settembre 2010 


Dopo quasi 25 anni di assenza tornare in Istria, non è esattamente come tornarci il giorno dopo, ma è proprio così che mi sono sentita. Qualcosa, ma niente in fondo, è cambiato. Ora assomiglia di più alle nostre colline, ai nostri borghi medioevali, alle periferie linde delle province del Nord-est, dove essere in Alpe-Adria è scontato perché Maria Teresa e Francesco Giuseppe non sono stati una parentesi insignificante. E’ questo che mi è venuto in mente andando per fratte fra i colli istriani e dentro borghi fatiscenti, così simili al ricordo del lustro in cui li vidi per la prima volta. Anche se per me l’Istria, e la Dalmazia, non erano affatto sconosciute, ma un luogo dal quale provenivano alcuni colleghi dei miei familiari o altri funzionari. -E’ un “giuliano“, sai…- era la sottolineatura quando negli anni  ‘950, si voleva far riferimento al destino triste di quei  migranti per forza, oppure ai “privilegi” concessi dallo stato italiano, quando li accolse come italiani  minacciati, portandosi dietro un marchio spesso immeritato e pure un po’ infamante di ex fascisti, anche quando non lo erano affatto. Così siamo arrivati in un agriturismo sperduto nella macchia mediterranea, dove il meticcio fra dialetto triestino e veneziano è una melodia che ancora stupisce, anche se è arcinoto, e se non lo fosse tutti i leoni che ti guardano dai frontoni sono lì a ricordarlo, per quante generazioni lì ha governato la Serenissima, cioè almeno cinque secoli!. E’ stato ritornare a quell’essenziale che mi incantava ai tempi di Tito, quando la miseria degli scaffali dei suoi market di stato mi risultava meno offensiva della fiera del superfluo sui nostri. Sotto la pergola familiare, un gattino avvezzo ai commensali e ostinatamente fermo a guardarmi mentre mangiavo prosciutto e bevevo Terrano, mentre si parlava con le padrone di casa: 

“Ma lei, mi scusi, è  italiana? Parla così bene il veneziano!” 

“Io? Faccio Damiani di cognome, le pare.” 

“Sa quanti ce ne sono in Veneto? Proprio un cognome dei nostri… (ma che sto dicendo ? Chi parla al posto mio? ) e la scuola, la scuola è bilingue ?” 

“Oh, sì, però ti mettono in base al cognome, se è croato vai alla scuola croata anche se sei italiano.”  

Espressione tra triste e trattenuta sull’orlo di una critica, che fa ancora fatica ad uscire tutta intera. Si finisce per familiarizzare, complice guarda caso un’altra coppia di medici attempati mittel-europei, lui austriaco lei slovacca. Un tentativo di approccio persino in latino, come era costume, me lo ricordo benissimo, fra le persone colte degli anni ‘950, quando l’inglese era la meno frequentata delle lingue europee e la cortina di ferro era ben salda, inespugnabile. Poi fra italiano, qualche spezzone di inglese, mio, e il romanesco universale del mio coniuge abbiamo passato in rassegna le qualità dei rossi italiani a confronto con quelli istriani, difesi come d’obbligo dalle ostesse, che però parlavano del cabernet e del merlot veneti come fossero gioielli di famiglia. Su indicazione delle ostesse siamo poi capitati  nel più sperduto borgo medioevale lasciato crollare nel senso letterale del termine: Piemonte d’Istria, buono per location di film sul dopoguerra,  così come è rimasto da allora. Tre case abitate, da chi non può o da chi non vuole proprio andarsene, benché il pericolo di qualche infortunio fra le macerie sia di tutta evidenza. In mezzo al muschio appena scaldato dal sole timido di una giornata autunnale dolcemente ventosa, mi sentivo ospite di un set dal quale sembrava dovessero spuntare gli attori da un momento all’altro.  Invece vedo all’improvviso due uomini in età che, con passo svelto e quello di uno dei due anche po’ agitato, si muovono parlando. Ascolto mio malgrado e poi resto attratta perché mi pare irreale.  Ma chi sono? E’ il tono concitato di uno dei due, la protesta vivace, quasi irata verso quell’abbandono: “L’hanno lasciato così apposta…” (per sfregio, si direbbe a Roma). Ma di che parla? Io che non sono mai stata un mostro di disinvoltura con i perfetti estranei, in quel posto sperduto, che nella sua evidente sventura sentivo così vicino, mi son vista rivolgermi a quell’uomo indignato e chiedergli di fatto, senza presentazione alcuna, una specie di intervista, che ho registrato per la nostra radio locale. I due erano alla ricerca della sepoltura di un gruppo di giovanissimi, uccisi in quel  dopo-guerra da incubo. Così alla fine ho salutato Joseph, emigrato in Australia da un lontano ‘958, ragazzo sradicato dalle sue origini e dai ricordi, stampandogli due baci sulle guance, misero risarcimento a una separazione così lenta che per molti non è ancora finita. Io cresciuta nel culto dei partigiani, lui che li nominava a denti stretti. Ha ragione mio marito, parlandone al ritorno, non ci sarà mai modo di elaborare questi lutti perché la verità è consacrata dal ricordo e come cristallizzata in una emozione che è condannata a non risolversi. La speranza sta nel passare del tempo e nelle nuove generazioni, che avranno altri ricordi e... forse così ci sarà riscatto anche per quei ventenni, per tutti i ventenni del mondo sacrificati inutilmente alla cecità dei padri. (scritto d’impeto nel settembre 2010)

La prima mail di Bepi, il contatto era previsto d’intesa per comunicare l'esito della intervista.


*joseph sterpin a me 

mostra dettagli 08:21 (3 ore fa)  6 novembre 2010 ( e-mail )

Cara Francesca 

Prima di commincciare ti mando tantti salutti.

Mi devi scussare la mia grammatica non essitti , perche io non o frequentatto le squole italiane,  per bruta fortuna o fatto squole Croate. Nostro incontro a Piamonte D" Istria e statto un miracolo,                                                                                                                                                                                                                                                                                                         anche se era per unpochi minuti,   il tuo abraccio era spontanio                                                                                                                                  io non lo dimentico mai piu. perccio io ti voglio tornare un abraccio per sempre


Cume ti o promesso ti mando la foto di monummento da 12 persone uccise nel 1949.  rispondi oncora  un  abraccio a te. stami bene.

Ciao  Bepi Sterpin

*mail originale, Bepi-Joe è autodidatta nella scrittura in taliano, che non ha usato praticamente mai.

Durante le nostre telefonate -Bepi mi chiamava dall’Australia di domenica sul mezzogiorno- avevo intuito il desiderio di scrivere la sua storia: “Se hai problemi con l’italiano, te la scrivo io, Bepi, ci so fare.” 

Così mi sono incastrata da sola in un’avventura sconosciuta e improba e mi trovo a seguire Bepi-Joe nel suo pellegrinaggio dei ritorni, mentre comincio soltanto ora a capire in quale ginepraio di eventi, sentimenti e significati vari mi sia inoltrata, con la mia ben nota incoscienza. 

“Tu sai cosa è Australia?” 

Bepi mi parla del dialogo con un amico: 

È l’arca di Noah. Ci sono tutte le razze e popoli del mondo, tutte le specie di piante e animali, su una grande zattera nell’oceano.” 

Mi sembra subito una osservazione acuta nella sua semplicità e immediatezza. Dalle origini dell’uomo il Diluvio è l’archetipo delle storie che “viaggiano”. Che cosa altro può rappresentare meglio un legame così stretto e inscindibile con il Passato, e nello stesso tempo un ponte verso il Futuro, come l’arcobaleno dopo la tempesta? Da qui penso, prenderò il titolo alla sua storia.


Alla farm sul K. (agosto 2012)


La prima tappa in Istria è a casa del fratellastro di Bepi-Joe, nell’incanto di P.  A pranzo alla “farm”, poco indietro alla deliziosa piccola baia sulla quale si affaccia il podere, conosciamo A. Si presenta salutando a voce alta il nostro Bepi-Joe, che si alza per abbracciarlo come fosse l’arcangelo Gabriele. E di un angelo A. ha gli occhi azzurro acquamarina su un volto di bronzo, per via di tutto il sole preso sull’acqua da chi, appena può, scappa dalla città per raggiungere il mare. Si siede a tavola con noi e comincia a parlare con Rom come lo conoscesse da una vita, quasi sapesse perché siamo lì. Lui, la sua famiglia, appartengono a quella categoria di esuli al contrario, che lasciarono l’Italia per la egualitaria e progressista Jugoslavia. E’ figlio di un friulano di Monfalcone, venuto a lavorare nei cantieri abbandonati con l’esodo: era stato chiesto ai compagni italiani, nello spirito internazionalista, di sostituire le numerose maestranze italiane che se ne erano andate con l’esodo. Era stato facile sostituire gli italiani dei villaggi rurali, ma gli operai qualificati no, di quelli ce n’era molto pochi nei Balcani senza industrie.  L’operaio specializzato viene dall’Italia nel 1947 con orgoglio e speranza e muore nel 1994, deluso e lontano dalla sua terra d’origine. Il figlio racconta che le sue ultime parole siano state contro il terribile "inganno" subito.

Amara conclusione di chi venne per aiutare a costruire, confidando di realizzare il sogno di una società socialista, felicemente solidale, e ne vide il lento e inaspettato naufragio. A. mi sembra preda di una specie di pena cronica, farcita di quel sentimento di perdita o tradimento, che il padre gli ha trasmesso, senza sapere di guastargli un po’ del suo diritto alla felicità. Se ne va salutando con il braccio spiegato come se alzasse la vela per prendere il largo, tutto si stempera in quell’aria di mare che scuote la macchia, nelle voci dei commensali modulate dalla brezza e nei profumi della cucina del boss. Aleggia lo spirito positivo della natura estiva e della spensieratezza conviviale, sebbene i commenti tornino ogni tanto sulla crisi globale. Così che basta un gioco di parole, un qui pro quo fra i due fratelli, tradotto in romanesco da Rom, perché si rida di cuore, con la risata fragorosa del padrone di casa (l’ho ribattezzato il “fratello Karamazov”, espressione dell’anima slava) che sovrasta tutte le altre, con una risonanza inesauribile. Sembra dire: chi non sta bene qui? E gira verso i ragazzi della cucina e i lavoranti del podere, autentica mescolanza etnica del socialismo reale balcanico, oggi ufficialmente morta e sepolta, uno sguardo di sottecchi alla Bronson, che non si vede più in giro.  Vorrei essere all’Hilton di New York o all’Harris Bar di Venezia? Nemmeno per sogno. Qui c’è vita vera, con le sue ferite e le sue risate, lì a malapena una rappresentazione poco convinta di attori mediocri e annoiati. Non cambierei la conoscenza dei fratelli o di A. con quella di un accademico del Lincei. 


La prima volta a Villa (agosto 2012) 


La mattina partiamo presto, passiamo oltre Pola e prendiamo per Pisino, comincio ad avere un’idea più precisa della geografia dei luoghi. Ogni tanto appare un paesino di stampo veneto, incantevole, o una casa sbarrata e in abbandono. Secondo Bepi appartengono tutte a esuli italiani; ovunque polvere e segni della siccità:

“Qui va tutto a remengo!” E’ il suo lapidario e sconsolato commento, esagerato dalla nostalgia. Sulla strada per Villa avviene il mio primo incontro con la venezianità dell’entroterra istriano, contraddistinto da nomi della nobiltà veneta molto noti dalle mie parti: i Grimani e i Morosini. All’ingresso sembra un borgo qualunque da superare di corsa, ma appena visto l’interno: “… ferma, ferma. guarda è i-n-c-r-e-d-i-b-i-l-e !” 

Ci appare un borgo quasi intatto, Santa Vincenta lo chiama B-J, con un campiello veneziano, compresa la cisterna perfettamente conservati. A Venezia non ne ho visti di migliori. Sulla strada un negozio e una osteria con alcuni bisticci di lingua nelle insegne in veneto e croato, ma chi non sa che i Ferlin sono veneti? Che emozioni, è un posto quasi sconosciuto, ma di una bellezza architettonica e museale unica, a cominciare dal castello- fortezza dei conti Grimani. Mi pare di stare a Venezia e nello stesso tempo ad Asolo, perché le due architetture si combinano felicemente in uno spazio ristretto. Ho preso B-J sottobraccio e andiamo per gli angoli delle piazze comunicanti intorno alla rocca, mentre i pochi paesani presenti ci guardano indolenti, appena un po’ curiosi di capire chi siamo. Noi parliamo a voce così alta in dialetto veneto, che sembriamo gli unici viventi di quel luogo, ma ecco uscire da un portone un signore in età, ha uno sguardo dolcissimo assomiglia a Sergio Endrigo. Dal nome sul campanello sappiamo già che è italiano, è il sig. M. Si ferma sulla soglia, espressione rassegnata ma gentile, non ci manda a quel paese per averlo fermato in una giornata afosa e si dedica a noi, forse per il solo fatto che parliamo la sua lingua e siamo alla ricerca dei pochi rimasti. Ci racconta la sua storia di ex operaio in Italia, dei suoi avi (ci mostra nel cortile interno la targa ottocentesca di un parente prete esimio) e dei suoi figli, cresciuti e rimasti in Italia, tra Veneto e Friuli: “Ma lei perché è tornato?” Vorrei dire invece: come si fa a stare in questa stupenda desolazione dove l’orologio sembra fermo a ben prima del 1947? Lui, il sig. M., ha un sussulto e lo sguardo prima solo gentile e paziente ha un guizzo. Sembra che perfino la schiena si raddrizzi e quasi mi gela con il suo: 

“Per morire nel mio letto.” 

Bepi si gira a guardarmi senza aprire bocca, leggo nella sua espressione quell’ecco! con il quale ogni volta sigla le conclusioni, un po’ come il nostro hai visto! Proseguiamo per Draguccio. Il paesaggio cambia per l’apertura su un altopiano, dolcemente ondulato e verde, che è diverso da quello carsico. Guardo avidamente e divento meno scettica rispetto al fatto che Istria sia stata in fondo una terra di contadini, circondata di coste e mare stupendi, come il nostro SUD. Niente di strano: è Mediterraneo, e non posso fare a meno di notarlo. Inoltrandoci vediamo a destra un bel casolare, semplice e modesto, ma curato quasi quanto quelli veneti. Mi colpisce l’aspetto di piena attività che emana nei suoi annessi, completi di quanto ci si aspetta. Ricoveri per animali e attrezzi, nonché di quella alberatura da frutta, che è ornamento e preziosa fonte di vitamine per tutto l’anno, a rotazione. Bepi si agita e dice di fermare subito. Giriamo lo sguardo dove lui indica: a sinistra c’è un bel vigneto e ci sono tre uomini a potare. Scendiamo con lui, che sembra averli riconosciuti e vuole che ci parliamo. Ecco fatto, quando mai possiamo fermarlo? I saluti sono caldi, come sempre da parte sua, un po’ più riservati da parte di quelli, magari perché siamo sconosciuti e in queste "langhe" non si è ancora abbandonata un po’ di sana diffidenza. M’inoltro incespicando per la fretta sulle zolle secche, sorriso cordiale stampato sulla bocca, ma ottengo un po’ di attenzione solo dopo che il nostro ha sciolto la loro riservatezza e i tre cominciano a pensare che non sono un’impicciona. Allora vengo a sapere che sono esuli anche loro, di rientro al paese natio durante le ferie,  anche per dare una mano nel podere, che non è esattamente una florida azienda, ma così uniscono l’utile al dilettevole. Rom sollecita Bepi, faremo tardi, se no. Scappiamo quasi, dopo un saluto e la ferrea promessa di un rivederci, alquanto improbabile, quando mai saremo di nuovo lì, proprio in occasione di un loro ritorno? In macchina, ritornando sul fatto che sono esuli in Svezia, come il caro Nino figlio della santola, rifletto con lui che non mi sarei immaginata una destinazione così a nord per gente di storia quasi isolana, immersa nel mare tiepido per eccellenza, mentre lui ha raggiunto e vive all’estremo sud del mondo. Se non è diaspora questa… 

L’australiano spiega, da pragmatico anglosassone di adozione, che in Svezia c’erano fabbriche per gli istriani urbanizzati, in cerca di una occupazione sicura e remunerativa. Così, con un retrogusto dolceamaro nell’animo, riprendiamo il viaggio per Villa.


Fa troppo caldo, sono le 11.00 sotto il sole d’agosto e non ho certo la resistenza di una volta. Parcheggiamo sotto l’albero a lato del piccolo cimitero che si guarda in faccia con Draguccio, dove conduce una strada sterrata, in sella a due alture contrapposte. Mi ricorda un bilico, ho quasi le vertigini e penso: “Resisterò un quarto d’ora. Bepi dove mi ha portato!” Il suo viso invece si illumina e poi diventa improvvisamente serio, nell’alternanza dei sentimenti. Dentro il cimitero è tutto uno stupirsi a leggere e registrare nomi e cognomi in tre o quattro versioni a seconda dei periodi di “pulizia linguistica”, come la chiama Pahor, che ne sa qualcosa. Bepi è peggio di un notaio, richiama indietro Rom perché non trascuri nulla, sono già stanca perché mi par che il fenomeno sia evidentissimo, anzi aumenta la mia allergia al genere: tanto ridicolo quanto perverso. Ma questo è solo l’assaggio di cos’è stato Draguccio e di quello che ne è rimasto. E adesso che lo scrivo, mi dico come l’abbandono e la sua rovina -un passato di borgo di un certo rango, con tutti i servizi compresa la stazione di polizia, elenca orgoglioso il nativo - lo abbiano però preservato, sequestrato in una frazione del tempo storico senza gli sfregi della civiltà dei consumi. Dobbiamo gioirne? Per quei vecchi che ci guardano, soprattutto donne, da dietro tendine modeste, che sembrano ancora quelle di allora, non so; però i giovani potrebbero ripartire da qui, dalla bellezza naturale che sembra incontaminata e dalla voglia di prendersi cura di ciò che può essere goduto dai viandanti che amano la storia e l’arte, anche quella povera, dei luoghi. Se ne parla in piazzetta, di una scarna suggestiva bellezza paesana, che mi fa pensare a un Pasolini che descrive il suo Friuli. E se ne riparla nell’osteria, l’unica rimasta per i pochi turisti che la frequentano, lungo il perimetro della mura dell’antica fortezza veneziana che fu. All’interno troviamo due giovani donne, sono alte e piuttosto belle, si vede che sono madre e figlia. Sono ansiosa di bere un caffè, fosse anche di una moka qualsiasi, tanto qua devono saper cos’è un caffè all’italiana. Bepi mi assiste come fossi ancora malata e traduce rapidamente all’ostessa che non parla quasi italiano e, mentre ci beviamo una bevanda decente, lei ci racconta insieme alla figlia che sono lì come pendolari dalla città e che quella era la locanda del padre, da anni abbandonata e poi ripresa con la speranza di un turismo che potrebbe decollare anche qui. Le incoraggiamo come fossimo del ministero degli affari economici e sociali, ma soprattutto desiderosi che quel luogo di ristoro resti assolutamente inserito nel suo ambiente, che emana un’antica venezianità, insieme ad altro. Come ultimo baluardo della storia che fu e ancora rappresenta: un paesino che assomiglia in modo impressionante al Pinocchio di Comencini, girato in un borgo dell’Appennino italiano, e ci racconta che i contadini e pastori sono uguali in tutte le parti del mondo. Tanto che, a guardarmi in giro, la storia del Bepi, col bisnonno e la Regina, i suoi maestri e compagni di scuola, mi esce dalla biografia per diventare vita palpitante. Le due donne, sorprese ma non diffidenti, ci parlano con maggior confidenza, pur tenendo ben stretto, alle nostre domande, il filo di un occhiuto realismo. Mi vien spontaneo pensare alla giovane incontrata poco prima in un’altra osteria sulla strada per Villa, la nipote dell’amico L. L’incontro è stato molto affettuoso e paragonando le conversazioni con le due giovani universitarie, in traduzione diretta del Bepi perché nessuna delle due parla una delle varianti di istro-veneto, mi rendo conto di quanto le due ragazze si assomiglino e siano delle contemporanee, anche se sul muro della bella osteria campeggiava un olio di Cecco-Beppe (l’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria-Ungheria) in piena carica.  Non posso impedirmi di pensare maliziosa che sia un tributo ai turisti di lingua tedesca, e mi dico che, onestamente, pur avendo una romantica empatia per Miramare e Carlotta, un analogo ritratto del nostro Nazario Sauro o del Garibaldi non mi sarebbe dispiaciuto. E neppure al Bepi. Suona mezzogiorno a Draguccio, mentre noi facciamo a ritroso la strada principale, ancora lastricata di pietra d’Istria. Quasi solo vecchie signore alle finestre, che ci seguono curiose, e ci pare trattenute indietro da qualche maschio:


"Ma vieni da Angela che ti aspetta.

-Sarei stanca, fa caldo Bepi"

Ma lei è già lì sull’uscio, vestita di nero, mani intrecciate in chiara attesa, e l' ”Aborigeno albino” è inesorabile. Dove la trova tutta questa energia? In realtà anche la mia stanchezza e la fame scompaiono dopo che la voce di Angela, chiaro e sommesso dialetto molto veneziano, mi introduce alle confidenze di casa, perché lei è una S., vivaddio! Lei ha visto il Bepi bambinetto, e i suoi cugini, andare a scuola tutti assieme per quella strada, dove la sua casa è ancora l’ultima. Nessun’altra dall’esodo è stata costruita e nemmeno la ri-costruzione dà segno di qualche importanza. Anzi è quasi tutto come allora, perfino i vetri rotti della vecchia scuola elementare, disabitata. Sono qui per ascoltare i vecchi che parlano del passato, di quel passato, lo crederesti in un paesino disertato dai potenti e dimenticato da Dio? Ogni immagine più carica di quei tempi è sottolineata dallo sguardo di assenso del Bepi, così che anche le sue apparenti esagerazioni affettive trovano riscontro in fatti e particolari che ci confermano, ancora una volta, come gli uomini messi assieme a far gregge sono il più stupido degli animali.


A Pola, alla ricerca della lingua perduta (agosto 2012)


Pola, che non vedevo dagli anni ‘980, è l'obiettivo illustre e l’ultimo luogo istriano della prima vita di Bepi-Joe. Nell’avvicinarsi in macchina lui, emozionato, parla in continuazione, indicando tutto quello che può essere legato alla sua storia, a cominciare dal quartiere dove abitava mama. E’ per rivedere come sono oggi case, vie, piazze e monumenti, ma anche perché io veda coi miei occhi il dove fisico della sua storia. In macchina siamo in tre, Bepi fa il navigatore. Dal sedile posteriore mi posso godere meglio la visuale e considerare le sue istruzioni, mentre continua il nostro gioco del confronto fra il suo “italiano” e il dialetto veneto della mia infanzia -mama stava là, da quella parte- e indica un quartiere di Pola a ridosso del centro. In quel mama, suona sempre una nota, quasi stonata, di affetto che nessuna smentita è riuscita a sopire, come accade nella nostalgia degli orfani o dei bambini abbandonati. Anticipo che Bepi si è sempre sentito, secondo me, un orfano di padre -un onnipresente padre fantastico- e orfano di una amorevolezza materna di cui non ha, o che crede di non avere mai goduto. 

“Erano altri tempi.” gli dico talvolta, e tua madre era così giovane.” 

“Ohhh, sì.” Risponde rapido, perché la mia giustificazione è un lenitivo alla sua amarezza. Mentre il rumoroso ma fraterno battibecco fra i due uomini, che non leggono il passato con la stessa lente, rapidamente cresce e poi si esaurisce in una risata, nel sedile posteriore io me lo godo. Vedo che, come cresce la nostra conoscenza empatica a quelle vicende personali e collettive, cresce anche la comprensione di Bepi-Joe della complessità degli eventi critici e delle ragioni degli “altri”, e perfino di quelle della madre che, a dir suo, gli negò sempre alcune verità. Lungo la strada ho finalmente focalizzato la presenza dei “casun”, che mi echeggiano i nostri ”casoni” veneti. I casun-casone e la villa sono i paradigmi di una vita contadina sobria e dura, legata alla natura e alla solidità delle relazioni semplici, quando per divertirsi e trovare le “morose” si andava al “balo” durante le feste paesane, qui come nel Veneto della mia infanzia. Quando morirà la generazione dei Bepi-Joe, di essa, se non andrà perso il ricordo grazie ai libri struggenti di molti istriani, andrà perso il profumo di paese, di borgo natio, che solo chi l’ha vissuto può conservare. Alla fine andiamo alla Piazza del Foro, anche “per fare cafè”, nostra comune abitudine in cui ci siamo felicenente incontrati, a spezzare "dolcemente " la mattinata.  Assaporiamo una bevanda, che assomiglia vagamente al nostro espresso, sotto il gazebo del bar e intanto scorriamo la piazza con uno sguardo attento, tenero e almeno per lui velato dalla nostalgia di ricordi troppo vividi e cari. Noi due stiamo a guardare come fosse l’ultima volta, indecisi fra una certa riluttanza ad andarcene e il desiderio di mettere fine a una specie di sofferenza, quella che riporta alla memoria le pagine lette su quell’imbarco nel Toscana, sotto il vento e la neve, perduta per sempre ogni speranza di restare. 


Pasqua 2013, terzo viaggio a P. 


Con la benedizione australiana di Bepi-Joe, sentito al telefono il giorno prima, siamo partiti il venerdì santo. La pioggia ci ha accolto subito dopo Trieste e ci ha seguito imperterrita durante tutto il viaggio. Giusto quel …Vieni qui è belllissssimo! Con il  quale D. ci aveva convinto a tentare. Mai vista tanta acqua in Istria, pensavo. Alle ultime curve prima di Promontore non si capiva dove finisse quella salata della baia, a sinistra, e quella dolce davanti al parabreeze. Finalmente è apparsa la torre illuminata della piazzetta e tirando un sospiro di sollievo ho rimesso saldamente piede sulla terra ferma.  Siamo accolti nella cucina esterna col fogoler, che è il regno della italianissima patriarca. Ci sono gli amici più stretti e i consuoceri di D. C’è A. con la moglie, più giovane e dal sorriso dolce, con treccia e faccia da indiana: qualcuno l’ha chiamata Pocahontas, che trovo perfetto. La serata, come in famiglia, trascorre a cucinare i granchi e a scoprire parole dialettali in comune. Tra noi è un rincorrere altre voci, come fra amici d’infanzia o vecchi compagni di scuola ci si diverte a ripassare i ricordi in comune. Strana combinazione, si scopre di essere apparentati da un passato che ciascuno ha vissuto per suo conto, del tutto ignaro degli altri. Dulcis in fundo, A. prepara la frittata (fritaia, ns fortaia) di asparagi selvatici raccolti per noi. Ha lo stesso sapore della frittata coi bruscandoli, ben noti anche in Istria, che si mangiava nel bosco dell’Olmè (a Cessalto,TV), il giorno di San Marco. Si dubita forse che siamo “compaesani”, che abbiamo respirato una vita di paese molto simile? Eppure c’è qualcosa di più, forse il richiamo a ricucire uno strappo ancora dolente. E’ Pasqua, qualcuno ci concede un pomeriggio di vento tiepido e benevolo e di sole, un sole che al tramonto farà risplendere all’orizzonte, sul mare, una striscia di diamanti. Il clan di D. è al lavoro per il pranzo alla farm. E’ il suo compleanno, si farà festa fino a tarda notte, con musiche e ballo. Si ride, si gioca, si incrociano discorsi e brevi escursioni alla baia o lungo gli stradoni della macchia, dove le folate s’infilano quasi a seguire i tuoi passi o a precederli per attirati chissà dove. Alla sera l’ultima sorpresa, durante un breve giro, giusto per fare un po’ di moto prima di coricarci, vado con mia sorella a passo svelto dalla piazza fin dentro ai vicoli. Alcuni giovani maschi, in due angoli diversi del percorso, sono sulla strada a giocare. Sembrano usciti dalla sala da pranzo pasquale per una pausa… guardo meglio cosa stiano lanciando a terra. Poi la memoria si illumina, all’improvviso: è il gioco di colpire e spaccare l’uovo sodo con le 100 lire !! Mamma mia, sono almeno quarant'anni che non lo vedo più. Come anche questo, in Istria? Due pensieri mi attraversano come lance, forse che il tempo qui si è fermato? e l’altro, con quale moneta staranno giocando? Il borin ormai freddo gira l’angolo e fischia frenando sulla pietra grigia dei muri di cinta. Mi stringo nelle spalle, come se un fantasma allegro mi avesse avvolto per prendermi in giro. Un’allucinazione? No, è vero-vero come l’uovo sodo è sodo vero. Dimenticare, dimenticarsi diventa impossibile, sono anelli che si aggiungono a una catena spezzata tanto tempo fa e magicamente in cerca dell’altro capo. Non crederci?  Il giorno dopo del ritorno, all’edicola dell’Ospedale, il mio ospedale di San Donà di Piave, c’è una locandina ben esposta, si annuncia la 2^ edizione del libro magistrale di Ulderico Bernardi, Istria d’amore, con una foto gigante della copertina. Una 2^ edizione, dopo neanche un anno, di un libro che dovrebbe piacere solo a una nicchia di nostalgici. Sopra con il pennarello qualcuno aveva scritto in corsivo: c’ero anch’io.


Estate 2014, Verona Fertilia Arsia e Albona (Giugno 2014) 


Il nostro “aborigeno albino” -il soprannome gliel'ha dato il "fratello karamazoff"- ritorna con un programma di viaggio. Andremo prima in Sardegna perché ha da vedere un borgo, di mare e pescatori, che lui si immagina ricostruito come un villaggio della costa istriana, per attenuare la nostalgia di coloro che vi erano destinati.

Atterriamo ad Alghero, il nostro albergo è appena fuori Fertilia. Usciamo verso sera nel verde mediterraneo, con la luce e il tepore tardivo di una giornata di prima estate, giusti per una esplorazione nella memoria del luogo e altrui. Aria di attesa che tocca solo lui e me, gli altri accettano con la pazienza che si concede ai bravi bambini. Fertilia, terra bonificata dai ferraresi, come abbiamo letto poi nel piccolo museo, ha un nome che la imprigiona al suo passato e si presenta subito una terra umida, con piccoli specchi d’acqua e canali scavati dall’uomo, dove prosperano canneti e radi alberi, eucalipti e altri di medio fusto, forse gelsi ma non ci giurerei. Intravedo qualche campo in cui si nota l’incuria dell’improduttivo, del disinteresse economico, tutt’altro che l’aspetto di florida azienda agricola. Un paesaggio inatteso, che non assomiglia a quello dei depliant della Sardegna turistica. Per me è l’incanto del tempo che si è fermato, come Cristo a Eboli, a stagioni di sobrietà, di fatiche contadine di cui si è persa traccia troppo presto. Paesaggio che pare, ma non è, testimone di una campagna e natura incontaminate dalla nostra età degli idrocarburi e della chimica industriale. Mentre la piccola Panda a noleggio segue grintosa le curve e lo sguardo non perde di vista il verde, mi sembra quasi di vedere, in controluce al tramonto, una figura ferma e appoggiata alla falce, ad asciugarsi il sudore col fazzoletto o il dorso della mano. Il ricordo di qualche tela di un pittore delle bonifiche? Non saprei.. guardo il Bepi, sta in silenzio, una specie di raccoglimento, chissà cosa si aspettava. Entrando in paese impattiamo, anche se mentalmente preparati, su un’architettura del ventennio fascista, rimasta quasi intatta come fu realizzata: piazza e viale verso l’obelisco agli esuli, al centro del belvedere che dagli scogli si guarda con Alghero. E’ chiara l’assenza di un qualsiasi ammodernamento che sia andato oltre una manutenzione straordinaria. La scena ci sprofonda nel 900 con una drammaticità cui noi stessi stentiamo a credere. Bepi ed io guardiamo tutto e ci interroghiamo cogli occhi, ben più consapevoli degli altri a causa della nostra ricerca. Ci tocca subito l’opacità del morale che leggiamo sui volti e che ci par di respirare. L’impressione è accentuata dalla scarsa gente in giro, con facce ben diverse da quelle di turisti soddisfatti, appena accalorati da una giornata di mare e pronti a una serata di cucina godereccia e di piacevole compagnia, ma siamo solo all’inizio della stagione vacanziera. Il nostro esploratore, emozionato e avido di cogliere ogni segnale dei suoi conterranei e della loro storia, sembra colto da spaesamento. S’era fatto forse un’idea poetica del luogo. Pensava di trovare un piccolo lembo di costa istriana?, una specie di sogno realizzato,  come il suo amato e lussureggiante giardino di Melbourne, cui dedica tante cure in memoria delle fioriture leggendarie di Villa. Giriamo un po’ a caso, guardiamo edifici a destinazione varia, facciamo pellegrinaggio al museo dove parliamo con qualche rappresentante delle ondate di emigranti in quell’illusione di eldorado, che invece si è rivelato avara terra di bonifica. Quanta delusione per chi arrivò da Pola o dai deliziosi paesi costieri di una penisola ben più progredita a causa del suo passato, veneziano e asburgico..  Terra rubata alle acque ferme e salmastre, non benedetta nemmeno dai profondi spazi che, in Veneto con le GENERALI e nell’agro pontino con la tenuta di Maccarese, avevano realizzato successi produttivi e un qualche benessere per una nemmeno numerosa massa contadina. Massa si fa per dire, in realtà centinaia o poche migliaia di migranti interni, sradicati da regioni che avevano fatto scuola contro la malaria, come il mio Veneto. Peccato che gli esuli istriani non fossero contadini che in piccola parte. Anche dopo, nelle chiacchiere con i locali, pare chiaro che non sia avvenuta una grande amalgama fra le varie ondate di popolamento, in questi luoghi per secoli disertati dalla benedizione dell’abbondanza. Sulle facce di molti la stessa aria fiacca di chi non crede più in alcuna rinascita e ci guarda stupito del nostro interesse. Fuori dal museo, per me a respirare una rasserenante brezza marina, due vecchi signori stanno a godersi il fresco su una vecchia panchina di legno, vicino all’obelisco. Tento un’intervista per trovare tracce di quel passato di esuli e saggiare gli animi. No, il più loquace, che è stato anche in politica locale, proviene da una famiglia ferrarese, dei pionieri della bonifica e dell’“appoderamento”, e mi trovo a naufragare nella storia della malaria, che ancora fa sorridere e infastidire i miei figli.  Chiedo a Bepi se in Istria ne abbia mai sentito parlare, anche lì c’è stata la bonifica e il nostro Sepulcri ci studiò l’infestazione delle zanzare maledette con l’Istituto antimalarico delle Venezie (notate la e finale, le Venezie all’epoca erano tre). Mi guarda incerto, non ne ha ricordo. Troppo giovane all’epoca, sentenzio, per quel buco di memoria. Eppure la malaria è stata per secoli la principale compagnia in gran parte delle coste e zone umide italiane e del Quarnaro, ma di certo nessuno a scuola gli ha fatto notare che anche l’Anita del Garibaldi ne è morta, scappando per paludi. Ma perché togliere la geografia e assottigliare la storia dai programmi scolastici, non è forse l’ignoranza dei luoghi e dei fatti vissuti la prima causa di inimicizia, disconoscimento e tradimento della nostra comune umanità? 



Le donne S.à (giugno 2014) 


Novembre 2015, da giorni mi dico che devo scrivere il capitolo di Fertilia e mantenere la promessa che nella Storia di Bepi-Joe ci sarebbero state anche loro. Ho mezz’ora di tempo, passo all’edicola dell’ospedale, dove quella volta avevo visto la locandina del Bernardi, per sfogliare qualche titolo della stessa collana. Vedo quello di A. Russello, Ragazze del Friuli, e lo scelgo per intenzione affettiva. Leggo le prime venti pagine in sala d’attesa e le riconosco: sono alte, belle, slanciate e forti in ogni aspetto, capaci come gli uomini di costruirsi una vita nell’ “altrove”, le ragazze del Friuli, fra le quali si nascondono, nonostante la proverbiale “sobrietà” dei padri, gioielli di empatia e generosità. Ecco risolto, sono loro le mie ispiratrici per parlare delle donne S.sà, perché mi richiamano il carattere di quella donna “tremenda” che incontrammo quella sera e, più addolcita e loquace, la sera dopo, per cena, noi affamati nel crepuscolo di quel giugno a Fertilia. Al primo impatto, sulla soglia della sua trattoria sotto i portici del viale centrale, aveva squadrato il Bepi in posizione di guardia, come se salutandola con la sua solita energia, il mio “ragazzone” l’avesse sfidata a chissà quale duello. Gli appassionati, come quei due, non sanno esprimere che così la diffidenza e l’entusiasmo, come un do di petto. Ma il crash non avvenne perché il chiarimento fu cosa di pochi secondi, dopo la quale prima con circospezione poi sempre più confidenziali, fin quasi all’affiatamento, hanno cominciato a parlare ciascuno delle comune origine e sventura, seguendo un filo personale, senza neppure accertarsi se l’altro avesse pienamente inteso tutto il concitato racconto. Li abbiamo lasciati per un giro all’aperto che si erano completamente dimenticati, lui di noi, lei delle parenti e dipendenti che avrebbe dovuto governare con l’occhio vigile della donna che è uscita indenne dalle tempeste. Più tardi, a buio fatto, ci siamo seduti al tavolo che ci avevano liberato come fossimo ospiti di riguardo. Ci seguiva lo sguardo amichevole di tutto il piccolo entourage, sparita ogni diffidenza e pudore. Verso il commiato, dopo aver parlato delle memorie e del libro, e aver visto i loro cimeli raccolti in una saletta interna a rammentare quel lontano dramma, sul quale altre generazioni di giuliani sembrano quasi indifferenti, mentre noi si andava, ho visti luccicare gli occhi delle più giovani. Lei no, la patriarca ci ha favorito un accenno di sorriso che, dopo tante delusioni e la perdita di ogni sentimento di rivincita, è il massimo che una come lei possa comunicare a degli estranei. Lasciavo quel luogo sentendolo come altri sospeso nell’incompiuto della storia, fermo nella sua architettura del ‘900 come l’unico sfondo adatto al sentire di quelle famiglie giunte da più parti a ricostruirsi una vita “normale”, quando la normalità era definitivamente distrutta da due guerre che avevano conquistato solo rovina e smarrimento.  Me ne sono andata con un misto fra sollievo e senso di colpa, quasi fossimo noi due, Bepi ed io, a doverci caricare del debito verso quel gruppo di donne, forti, ma deluse dall’appuntamento mancato col luogo che doveva diventare un secondo “paese natio”. Eppur la Sardegna è un paesaggio che può ben gareggiare in bellezza con qualsiasi isola e costa e sanare assenze e nostalgie. Si pensa, ma è nata con l’uomo la certezza che non gli basta l’Eden-Natura per essere felice. Se non l’hanno capito loro.. Donne istriane, nate in terre di confine, che è sempre, a causa dell’essenza umana, fulcro di ricca diversità ma anche condanna a subire i conflitti e le loro perverse eredità. Tornando all’albergo si ragiona dell’aura, gli inglesi direbbero mood, di tristezza che sembra gravare sul posto come sugli abitanti. Forse siamo stati noi, le domande di Bepi, le mie, a sollevare un precipitato di amarezze e solitudini, degli uni e degli altri, non importa da dove provenienti, e a intorbidare le acque quiete di quel posto ormai rassegnato a tempi lenti e a distanze lunghe, dalle loro radici ma anche da un mondo occidentale che, da eccitante promessa degli anni ‘70-‘80, ha lasciato indietro per primi proprio loro, gli antichi migranti. Si parla del senso della vita, delle sue sconfitte e miserie, allora Bepi ci tiene a raccontare che a un certo punto si è chiesto se doveva ancora accumulare, per chi, e se il lavoro fosse il fine dell’esistenza. No, bastava così. Sarà che lui è speciale, che ha allungato il passo fin alla grande zattera del mondo all’in giù, ma persino quando scuote la testa fra la pena e l’impazienza dell’uomo forte che saprebbe che fare, non resiste in apnea che pochi minuti, poi la sua verve vitale riprende il sopravvento e ti chiedi perché non è ancora stanco. Della lunga e calda giornata, del girare il mondo in cerca di ricordi e risposte, e di vecchie storie che interessano solo lui e forse quei pochi che condividono una fedeltà antistorica a quello che è stata Villa o Istria. Almeno lui ne esce senza ferite o brutte cicatrici, ben diversamente da alcuni, a Trieste soprattutto, preda di psiconevrosi da disadattamento, o meglio da una vera sofferenza spirituale, ben nota ad alcuni specialisti e studiosi della città contesa e squassata dai drammi del ‘900. Un clima che trova suggestive conferme negli scritti di storia e letteratura di illustri triestini, fra le quali hanno un posto particolare quelle dell’istriano Fulvio Tomizza, scrittore di frontiera (del Confine Orientale) per eccellenza. La sua opera è tutta segnata dal rimpianto per il luogo natio e dal “mal di vivere” che ne fu generato e amplificato. Fu vera salvezza che sul finire del secolo i basagliani facessero di parco San Giovanni un lenzuolo di rose sul golfo di cobalto, a curare le molte spine di vite disabilitate, provvisoriamente o anche no. Quante volte si saranno chiesti, alcuni, se sarebbe stato meglio restare benché in Jugoslavia. Andare o restare, ma tutti insieme, non solo per dare una risposta alla Nelida. Son quelle domande che ti bucano il cervello, se non te ne liberi in fretta. Colpa della storia o colpa individuale? Comunque meglio scaricarla sulla prima, molto meglio, e poi vivere in pace, ovunque ti abbia portato il caso o una scelta oculata. Sensi di colpa e indeterminatezza non fanno bene all’anima, la tengono nell’attesa perpetua di un qualcosa che non sarà mai. Incertezza, delusioni e triste rassegnazione, che metterci ancora? Andate a Fertilia, è una natura aspra ma bella, e potrete imparare molto da una storia speciale, quella che non trovate nei libri, ma è scritta nei cuori e nella faccia della gente e persino nelle facciate della sua intatta architettura. Costruita per raccontare speranza ricchezza e felicità, senza riuscirvi, diventando invece simbolo di un’epoca da dimenticare.  Ma no, perché nella civiltà dell’uomo anche gli errori e le sconfitte contano, almeno per impararne la lezione.



In Arsia e Albona (estate 2014)


Dopo aver raccolto Bepi-Joe e consorte a Fiumicino, partiva da Verona il nostro tour. Fertilia era prevista come la prima tappa, ma il caso volle che di fatto partissimo a ritroso dell’avventura bellica del Vittorio. Mentre si girava nella città di Giulietta, Bepi tornava a chiedere di andare alla stazione di Porta Vescovo. Da là infatti sarebbe partita la tradotta di suo padre. Era sicuro che vi avrebbe trovato una targa o qualcosa che ricordasse la partenza verso la morte bianca di molti italiani, mandati a provocare il fronte che aveva tradito perfino Napoleone. Faceva un caldo orribile in quel primo pomeriggio e non ero nello spirito giusto quando arrivammo nello spazio antistante la stazione. Mi deluse il profilo modesto della piazza, indecisa fra architetture sovrapposte, in cui non era facile riconoscere l’impronta originaria, persino il giardino mi sembrò striminzito e scesi dalla macchina convinta che fosse una ricerca inutile. Il Bepi era già a terra con la fotocamera pronta e girava lo sguardo intorno, impaziente e pignolo allo stesso tempo. Per quanto fosse piccola la targa non doveva sfuggirgli. Eccola finalmente, seminascosta per le dimensioni e la sobrietà, sembrava quasi una segnaletica stradale, qualcosa di importante, ma solo per chi vi presta attenzione. Lo vidi a gambe divaricate per ottenere la migliore inquadratura e lessi anch’io. Ebbi finalmente la sensazione che la vita del Vittorio uscisse dalla letteratura familiare per diventare una storia vera. Da lì, mi dissi, erano partire le “centomila gavette di ghiaccio” , e il minatore istriano era fra loro, a soffrire quell’inferno di gelo e tormenti sulla via di un ritorno ben diverso da quello promesso. Neppure lui sapeva che partiva da italiano per tornare da… Invece non tornò affatto. Immagino anche oggi che scrivo, che cosa si rimescolò nella pancia e nel cuore del Bepi, anche per lui fu la prima volta che ebbe un riscontro fisico legato al destino di suo padre: disperso, che quasi sempre vuol dire morto, anche per un bambinetto che non voleva, non ha mai voluto considerarsi orfano del tutto. Sarà stato come riconoscesse finalmente il luogo della sepoltura di Vittorio S., nato in Istria, alpino, il cui figlio non avrebbe mai avuto un passaporto italiano. Molti saranno stati i sentimenti che lo hanno agitato per qualche minuto, ma io so che non mancavano certo, tra i primi, la ripulsa e il ripudio della guerra. 


Quella visita era la premessa per gli incontri successivi con Arsia e Albona, dove era cominciata tanto bene l’avventura del matrimonio di Vittorio con Maria e quindi la sua storia personale. Si parte da Promontore già al mattino perché era deciso che si andava incontro a B., che ci avrebbe fatto da guida per tutta la giornata. Non mi entra in testa che Labin non è che l’altro nome di Albona, una piccola Venezia mi dicono, e forse è questo che non mi quadra: che in mezzo a quel paesaggio francamente mediterraneo, roccioso e ripido sul mare, ci possa stare un insediamento che ricordi la città d’acqua più che unica al mondo, l’inimitabile. Sono scettica e curiosa e mentre si procede allontanandoci dalla strada costiera si apre un paesaggio interno, che dopo un po’ mostra le sue caratteristiche di plaga umida. Bepi spiega che è l’Arsia (oggi Rasa) il torrente che incontriamo, mi raccapezzo. Siamo nella zona palustre del Quarnaro, dal suolo piatto rigogliosamente erboso e verde, tipico delle bonifiche sotto il livello marino. Non mi stupisco più che comparissero nei disegni del Sepulcri, nelle sue cartine mappate con retini di vario calibro, per indicare le specie di zanzara. Appare qualche edificio isolato, di solito casolari abbandonati, ma quel che mi colpisce e appassiona sono le cantoniere dell’ANAS ancora di un rosso veneziano, sbiadito se volete, ma testimone testardo fin da lontano della loro divisa. Sembrano guardare la campagna con gli occhi neri, esterrefatti?, delle finestre talvolta senza infissi o di rado miracolosamente intatte. Le stesse che trovi ancora in giro per l’Italia e mi avevano commosso a giugno, sulla strada per raggiungere il nuraghe più bello, quando una ci apparve all’improvviso dopo una curva, lungo l’altopiano sardo. Noi si andava per tornare indietro di secoli, a conoscere castelli primitivi forse coevi ai “castellieri” istriani. Lei era là, rossa e bianca stagliata contro un verde sorprendente, traccia del secolo più vicino. Mi colpì l’amaro contrasto della sua modernità con l’evidente disuso e l’abbandono, cui era condannata nel silenzio fitto di una natura regnante: fu una vera sorpresa trovare una cantoniera dismessa e lasciata in dote al vento, nell’interno semideserto dell’isola. Una specie di conferma che si era, anche lì, in Italia, benché assorti nel turbamento di ere lontanissime, non tanto in giorni e anni, quanto in speranza di futuro, se sopravvivere e generare erano allora gli impulsi più semplici che muovevano gli uomini. 

Finalmente si passa il ponte sull’Arsia, e mi pare che dopo Fertilia e la sua natura, troviamo ancora assonanze col paesaggio italico; chissà cosa ci aspetta nella piccola Venezia. Raggiungiamo il colmo della collina dove si trova la città vecchia e già dalla porta principale e dall’ampio giro di mura, che la cinge imponente da destra, ci racconta quel che è stata negli anni floridi della sua esistenza. Si parcheggia nella piazza fuori le mura della cittadella fortificata e, sceso, Bepi emozionato già ci indica col braccio teso la chiesa dove si sposarono i due giovani e il quartiere della loro casa. B. tarda ma al cellulare si scusa, sarà qui fra qualche istante, ed eccolo salire verso la porta, Bepi lo riconosce e gli va incontro. Il nostro appare anche più alto quando si abbracciano e stringe lungamente l’amico come non lo vedesse da un secolo. Finalmente si gira e ci presenta, uno per uno. B. all’inizio è timido poi al nostro sorriso e dialetto si scioglie e la sua stretta di mano è forte e sincera, dice che se siamo amici di Bepi siamo anche amici suoi e noi lo sentiamo senza filtri cerimoniali. La visita alla cittadella, a cominciare dalla fontana dell’acquedotto, è un bagno di storia che attraversa il dominio della Serenissima per arenarsi alla fine del secondo conflitto mondiale, come se dopo… Dopo non era più Italia, semplicemente, ma per i due è stato lo spartiacque fondamentale della loro vita. Non è difficile nemmeno per noi condividere l’orgoglio per quei segni di italianità, che neppure forzando la pubblicità turistica si potrebbe camuffare, ma la sovrapposizione è la regola ovunque siano passati diversi conquistatori. Ne sappiamo qualcosa, da Italiani,  chi meglio di noi può vantare tante variazioni di governo nella sua storia? Ma Istria ne aveva subite troppe, così ravvicinate da riguardare la stessa generazione, come dice bene Pauletta dissertando sul significato di patria e luogo natio. Passando per calli e campielli finiamo al museo, che contiene un tratto di galleria della miniera, dove gli altri si infilano per provare il brivido del sottosuolo. Vicino, nella galleria d’arte moderna, ci accoglie la figlia di B. che ha studiato a Venezia, come va? Lei ci risponde in italiano piuttosto buono che la crisi si sente anche nel turismo e che qui, come da noi, l’arte è meno finanziata che in passato, anche quello del regime comunista, tanto per dire. Si confida nell’Europa, ma senza illudersi. Ne confronto l’espressione con quella del padre, non è la stessa, non vi è certo lo stesso entusiasmo per la nostra visita, ma la cortesia dei giovani che hanno studiato. Li trovi, immaginiamo, in ogni angolo d’Europa, accomunati da un inglese scolastico che come la moneta dovrebbe bastare a farli cittadini europei. Non pare ci credano tanto ma, per quel che sappiamo della generazione Erasmus, almeno sembrano liberi dai molti pregiudizi nazionalistici, perfino più di noi, che dell’essere “cittadini del mondo” avevamo fatto una bandiera. Che sia un passo avanti è d’accordo anche il Bepi, ma ci tiene a ricordare che terra di libertà,  democrazia e benessere, come la sua seconda patria, l’arca-Australia, non ce n’è. Noi facciamo ricorso al proverbiale scetticismo italico e ci permettiamo di dubitarne, ma che la nostra Europa vada peggio, nonostante i suoi inestimabili tesori, ammettiamo che sia piuttosto probabile. B. ha organizzato il pranzo fuori città, in una trattoria gestita da “italiani”, dice.  Bepi ringrazia felice e compiaciuto, immagino camino acceso (benché sia ancora estate per fortuna piove) e alberi tutt’intorno. Non mi sbaglio, dopo un po’ di strada su e giù in mezzo a un territorio che mi ricorda moltissimo il Carso sopra Trieste, sempre più in dentro alla costa in un paesaggio che sa di fresco e bagnato, di legni marciti e di quel silenzio umido e afoso insieme, che induce alle nostalgie, approdiamo alla nostra meta. A noi è riservata una saletta quasi dietro l’edificio, che si presenta con una terrazza esterna, tipo gostilna-gostionica (locanda/trattoria), che si incontrano già da Muggia in poi. Entrando mi appare come il luogo per un incontro carbonaro. L’arredo è minimale di vecchia fattura, e i muri “affumicati” dal camino che scalda l’ambiente in ogni senso. E’ chiaro che è un locale di famiglia, dove certamente non hanno accesso che i parenti e gli amici, quando pranzano coi padroni di casa. Oggi però il padrone di casa sembra B. L’amico titolare si rivolge a lui e dopo i primi saluti ha il beneplacito a portarci una serie di liquori di frutta da gustare coi salumi, che appaiono subito a Bepi e Rom, beati loro, delle ghiottonerie per pochi intimi. Ci accomodiamo come fossimo a casa nostra, alla rinfusa sulla prima seggiola che ci capita, mentre la conversazione decolla e poi incalza, andando dai pareri su quello che ci hanno servito alle ultime novità, dalla più banale alla politica europea, mischiando tutto con la foga dei commensali che non temono affatto l’ubriacatura di voci e pensieri. Ogni tanto vien qualcuno per salutare B. e Bepi. Tutti passano dall’istro-veneto al croato e viceversa quasi senza accorgersene, e anche i nostri due animatori trovano più facile in certi momenti esprimersi nella lingua frequentata fin dall’infanzia e nella quale sono stati istruiti. Benché rivendichino la loro appartenenza etnica e linguistica, in realtà sono la prova vivente delle “mescolanze” necessarie. Noto che in fondo è avere qualcosa in più, piuttosto che qualcosa in meno. La mia considerazione spazia anche nel mondo dei dolci, cui sono troppo sensibile, ma chi rifiuta di assaggiarli solo perché non sono quelli della nonna? A P. al suo compleanno, il “fratello Karamazoff” me ne ha presentato con orgoglio una varietà di balcanici, tutti confezionati dalle mogli dei numerosi amici, e mi son sembrati la miglior dimostrazione di come si può condividere “una torta”. Per me torta e frazioni sono la base matematica sulla quale trovo comodamente una prova fisica del concetto di uguaglianza. Lo dico anche a Bepi-Joe, lui mi risponde col solito sorriso di assenso, che è meglio di un sì “ciaro e s’cetto” (chiaro e schietto). Il clima diventa di quelli che mi rendono la giornata memorabile, ho la sensazione che questi incontri non sono solo frutto del caso. Sono davvero dei “sincronismi”, come li chiamano alcuni studiosi del genere? Ai saluti, scambiando telefoni e indirizzi, invito caldamente B. a venire a trovarci sulla strada di Venezia. Mentre ci giuriamo di farlo, sinceramente, e pare si ritardi intenzionalmente il passo per salire in macchina, vedo che B. e noi due siamo commossi, come chi sapesse di fare una promessa che non gli sarà facile onorare. 

Anche dopo questa breve immersione empatica, tentiamo di capire a cosa mai abbiamo assistito. Bepi è l’unico soddisfatto, ma principalmente perché ha incontrato un amico, qualcuno che lo capisce benché sia un “rimasto”. Ritorno con la mente sulla storia di B., che ci ha tracciato a sprazzi, ma che mi è sembrata, nella sua vivacità, coerente al carattere e convinzioni dell’uomo. Sono a loro modo dei nazionalisti, con un orizzonte ristretto? Non mi pare affatto, posso affermarlo di certo per Bepi, la sua vita nell’arca-Australia e tutto il percorso per raggiungerla e ottenervi la sua identità sociale, ha scavato fondamenta interiori del tutto contrarie e che si sono ben accompagnate al suo temperamento di uomo “giusto”. B. mi è sembrato legato soprattutto alla sua italianità culturale, e a una specie di bilocazione affettiva, che lo vede cittadino istriano quasi quanto cittadino ideale di quella Venezia, che ritrova quotidianamente nei tratti di Albona-Labin. Non rinuncerebbe mai, credo, alla sua lingua e al suo sentirsi comunque italiano, ma in Italia sarebbe, si sentirebbe un pesce fuor d’acqua. Le mescolanze raggiunte, dopo più di cinquant’anni, hanno consolidato piuttosto che indebolire il suo legame al luogo natio reale, non mitico. Magari sbaglio, ma questo mi sembra assodato dal fatto che la generazione dei venti-trentenni d’Istria “ha i piedi” nella realtà di uno stato, e soprattutto continente, diversi da quelli del 900 e dove a loro, e non più ai loro nonni, è chiesto di prendere le redini della vita comune. Penso una volta di più che dobbiamo “lasciarglielo” fare, e che sia Bepi che B. siano dello stesso parere.


Ultima tappa 


Nel pomeriggio di questo luglio afoso ( 2014. Veneto, Italia ), ma non troppo, ci sediamo nella mia cucina a nord, in una penombra che crea un clima ideale per le confidenze. La ventola del condizionatore manda un rumore sordo, non sgradevole, che induce un certo rilassamento. Mi siedo quasi affranta verso l’ultima fatica: registrare con Bepi gli ultimi scampoli dei suoi ricordi, i punti che ho perso o non fissato bene, gli episodi più significativi cercando, questa volta, di affondare nel ricordo delle percezioni, delle suggestioni o delle riflessioni che anche oggi gli evoca il suo vissuto. So bene che per lui non è soltanto il piacere o il bisogno di ripercorrere la sua vita, perché la semina di eventi tristi o drammatici è stata così copiosa nella sua infanzia e giovinezza tra Istria e Italia, che è spontaneo e inarrestabile anche il ritorno di una sofferenza che, se è risolta, non è dimenticata né rimossa. L’ho visto coi miei occhi quando mi raccontò l’episodio dei 10 dinari. Mi rendo conto pertanto che non sarà una passeggiata fra ameni ricordi di Villa, Pisino, Fiume e Pola, i luoghi in ogni senso della sua storia prima dell’approdo all’Arca di Noah. Mi appresto però con la determinazione di chi ha fatto la promessa di concludere, sollevo con uno sbuffo la frangia, e lo guardo dritto negli occhi. E’ vicino a me sulla panca di legno, poggiando un gomito sulla tavola come fosse stanco e sorride, pronto a fare il suo dovere, perché questa “cosa“ la vive come una missione, forse suggeritagli dalle presenze “aliene” che lo hanno raccolto da terra tutte le volte che ha creduto di crollare per sempre. 

“Bepi, è l’ultima fatica per te, poi ci lavoro da sola. Però è necessario dirci una cosa importante prima che cominci a scrivere la tua storia. E’ il senso di quello che stiamo facendo!"

Lui mi guarda con occhi interrogativi sempre più tondi, so che pensa “ancora non lo saa..i”?

“Voglio dire, perché ne facciamo un libro. Non ti pare che di storie di esuli si sia detto tanto? C’è secondo te, secondo noi due, un messaggio che vale la pena di consegnare a qualcuno? "

Ha smesso il suo sorriso lieve dell’inizio e sembra che alcuni pensieri gli attraversino la mente, cerco di acchiapparli prima di lui,

“Tu dici sempre che detesti la guerra, tutte le guerre del mondo, odi le armi e il loro uso: “nesun me metarà mai uno sciopo in spala”. 

Ha uno scatto e si alza sul busto eretto per assentire con un movimento rapido ed energico, come avessi appena proclamato la più grande verità.

“Bepi, sai che significa questo, ci hai mai pensato…. Ricordi il tuo racconto su Australia-Arca di Noah ?” 

ll suo viso si rilassa in una espressione di condivisione piena e gratificante, la parola è secca e compiutamente unica:“Davero!” 


5 settembre del 2015 


La cronaca globale parla di masse di profughi in fuga verso l’Europa e che premono alle frontiere dei Balcani. Oggi, la storia che avanza ci dice che è sulla rotta dei Balcani, una volta ancora, la vera, ultima?, sconfitta della civiltà d’Europa.


13 Novembre 2015, Paris 


Decine di giovani europei, cristiani islamici atei, diversamente felici, muoiono falciati per mano di coetanei mentre cercano di costruire il loro progetto di vita. Siamo tutti in lutto, un lutto terebrante che arriva fin alle ultime radici della nostra paternità.

Sto per chiudere, la storia di B-J è scritta, mia figlia maggiore è a Melbourne, ospite nella famiglia di Joe e anche un po’ nella city, fra coetanei che affittano insieme l’appartamento per risparmiare. Come è e sarà costume obbligato di molti dei nostri trentenni, che vivono nelle città del mondo le varie forme di lavoro precario o di carriere competitive che divorano energie vitali. Si tratta di quel genere di vacanza-studio, o similari, coi quali l’Australia favorisce l’arrivo di giovani from all-over-the-world. Fra questi, molti gli italiani che tornano sulle orme dei nonni. Per migliorare l’inglese, lavoricchiare in attesa di qualcosa di meglio in patria, o lavorare per vivere e magari mandare pure qualche mille euro a casa, nelle contrade del Sud. Anche per immergersi in una delle metropoli in cima alla classifica delle più vivibili, oppure, semplicemente, per fuggire la depressione e la sfiducia e provare a cavarsela da soli. Ognuno di loro con una storia diversa, una faccia e un bagaglio diversi, ma un comune desiderio di riuscire, di fare, di stare abbastanza bene per continuare e tornare indietro con qualcosa di concreto, se sarà il caso di tornare. I nonni sono partiti sui piroscafi con le valigie di cartone, fra gli ultimi quelli del Toscana; la gran parte di loro dalle nostre province del Nord-est, come si racconta di quel momento storico e della desolazione che regnava nell’Europa devastata dalla guerra e ridotta in povertà, pardon, esclusi i magnati delle armi. Partiti nel primo, o nel secondo novecento come il Bepi, per ricostruire una vita e senza paura dell’ignoto, cui si apprestavano con ingenua ma ben riposta fiducia. Perché era meglio che restare a languire ai confini della miseria, che si venisse da di là o dal di qua della cortina di ferro, per motivi anche diversi, ma con la stessa voglia di andare ed “essere felici”. La differenza è che questa generazione di migranti provvisori lascia un mondo di benessere e consumi sofisticati, in cui però è morto pure il desiderio infantile di aspettare babbo natale per un gioco da nulla, atteso per tutto l’anno. O sognare i libri di scuola e le scarpe nuove, per il contadino che voleva diventare ingegnere o dottore. Non si può nemmeno fare un paragone. Ma anche questa che arriva laggiù, ora nel mondo global-digitale, non è una migrazione d’élite, dei figli insoddisfatti di una borghesia annoiata. Avviene in un’atmosfera di guerre endemiche, che attanagliano il lago mediterraneo, di incertezza del futuro che è gigantesca quanto lo sono le dimensioni e le velocità raggiunte con l’high-tech. Durissima quella dei nonni e spesso senza alternative; provvisoria e sperimentale quest’ultima dei nipoti, ma non meno difficile per quelli che non hanno la forza vitale di un Bepi-Joe. Che dire allora a una ragazza di 28 anni, che ti parla a video su un giocattolino di 8x4, e ti racconta degli amici che lascia, e non vorrebbe, dopo sette mesi: dal 23enne che aiuta la famiglia lavorando e vivendo qui da solo, nel “mondo all’in giù” di Joe; a quegli altri che per garantirsi un futuro col permesso permanente hanno provato la vera fatica dei braccianti, sotto il sole cocente delle farms? 

Noi scegliamo di raccontargli una storia del possibile, quella dell’Arca di  Bepi-Joe.

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